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Cosa ci dicono (e cosa no) i numeri sul coronavirus

Aggiornamento: 1 ago 2020

La pandemia da SARS-CoV-2 ha stravolto le nostre vite, ponendoci di fronte a uno scenario imprevisto e senza precedenti. La scienza non è in grado di dare risposte certe, e gli unici elementi a nostra disposizione per tentare di decifrare come procede il contagio sono i dati che i governi di tutto il mondo raccolgono e pubblicano quotidianamente. Da quei dati derivano titoli, grafici, narrazioni, ipotesi, stati d’animo. Su quei dati costruiamo la nostra conoscenza del fenomeno, così come le proiezioni e i modelli per programmare come e quando uscire dal lockdown.


A livello nazionale, la principale fonte di dati è il bollettino quotidiano della Protezione Civile, che raccoglie i dati forniti dalle singole regioni e ordina i casi totali in 3 categorie:

  • Attualmente positivi: somma dei pazienti “ricoverati con sintomi”, in “terapia intensiva” e in “isolamento domiciliare”

  • Dimessi/guariti: le due categorie vengono sovrapposte ma non coincidono

  • Deceduti: morti a causa dell’epidemia

Tutti i dati presenti nel bollettino derivano dai risultati dei tamponi effettuati dall’inizio dell’epidemia (ultima colonna a destra). Attenzione: il totale dei tamponi non corrisponde al numero di persone che sono state effettivamente testate, perché alcune vengono sottoposte a più tamponi. Pensiamo ai guariti: un primo tampone ha accertato la loro positività e successivamente ne sono serviti due consecutivi, entrambi di esito negativo, per dichiararne la guarigione. Il numero di persone testate è dunque molto inferiore al totale dei tamponi effettuati.


Il metodo con cui sono stati finora eseguiti i tamponi incide anche nel conteggio degli attualmente positivi, rispetto ai quali è ormai noto che il dato ufficiale non rispecchi la realtà. I tamponi vengono effettuati secondo criteri non omogenei e con differenze sostanziali tra regioni: in Lombardia, la regione più colpita, viene sottoposto a tampone solo chi si presenta in ospedale con sintomi gravi; in altre regioni, come il Veneto, sono stati effettuati tamponi a tappeto; in alcune regioni vengono testati i parenti e i contatti più vicini a chi risulta positivo, in altre no. Qualche settimana fa, in un’intervista a Repubblica, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ha definito “credibile” il rapporto di un malato certificato ogni 10 non censiti. Secondo Borrelli, era credibile che gli attualmente positivi in Italia fossero più di 1 milione e 750mila alla luce degli (allora) 175mila certificati.


Nelle ultime settimane si è generata anche un po’ di confusione rispetto all’incremento giornaliero del numero di positivi. Bisogna distinguere tra l’aumento degli attualmente positivi al virus e l’aumento complessivo dei casi totali. Il numero di persone attualmente positive non include quelle che non lo sono più, ovvero i deceduti e i guariti. Il numero complessivo dei casi, invece, comprende tutti coloro che sono stati colpiti dal virus, quindi anche deceduti e guariti. Di conseguenza, per avere informazioni sull’aumento dei contagi si deve considerare l’incremento dei casi totali, mentre l’incremento delle persone attualmente positive serve a tracciare la curva epidemica.


Il discorso si fa ancor più delicato in relazione ai deceduti. Vari organi di informazione da settimane raccontano il dramma di persone morte in casa o nelle RSA, senza essere sottoposte a tampone. Queste morti non rientrano nei dati ufficiali. L’Eco di Bergamo e InTwig hanno lanciato un’indagine dalla quale è risultato che nel mese di marzo, di fronte a 2.060 decessi certificati Covid-19 negli ospedali bergamaschi, le morti riconducibili al coronavirus sarebbero 4500. Più del doppio.

Curva dei contagi in Italia. (fonte: John Hopkins University)

Avere dati affidabili rispetto ai contagiati e alle vittime del virus è fondamentale per ricavare altri due importanti indicatori: il tasso di letalità e il tasso di mortalità. Anche questi vengono spesso confusi o erroneamente usati come sinonimi, ma forniscono informazioni diverse tra loro. Il tasso di letalità si ottiene dividendo il numero delle persone decedute con il totale dei malati. Il tasso di mortalità, invece, si ricava dividendo il numero delle persone morte con quello dell’intera popolazione. Il tasso di letalità è dunque più alto del tasso di mortalità. Nei giorni scorsi ha fatto notizia il tasso di letalità del Belgio (14,7%), il più alto del mondo. Il governo belga ha giustificato questo dato considerandolo una conseguenza dell’accuratezza e della trasparenza con le quali sono stati conteggiati e comunicati i decessi, ad esempio includendo nel conteggio le persone morte nelle case di riposo. Il grafico seguente mostra come varia il tasso di letalità tra i diversi paesi, ma in assenza di un metodo omogeneo nella raccolta dei dati la sua affidabilità non è assoluta.

Tasso di letalità (fonte: John Hopkins University)

Un altro parametro decisivo per monitorare l’andamento del contagio e realizzare previsioni anche in vista di un allentamento delle misure restrittive è il tasso di contagio o R0 (di cui vi abbiamo parlato qui). Farlo arrivare, e mantenerlo, sotto all'1, permette al virus di diffondersi meno velocemente sul territorio, dando la possibilità agli ospedali di non sovraccaricarsi, ma questo è possibile per il momento solo tramite il distanziamento sociale.


Alla luce di queste analisi, i numeri sul coronavirus sono indispensabili per tenere sotto controllo il contagio ed elaborare misure efficaci verso il ritorno alla normalità. Volendo dare per scontato il principio di trasparenza (nonostante alcuni dubbi più che leciti, come quelli verso il governo cinese), raccogliere i dati secondo criteri omogenei su scala mondiale è il primo passo per intraprendere un percorso che possa portarci fuori da questa emergenza nel minor tempo possibile. Al contrario, in mancanza di un sentiero comune il rischio è quello di raccontare solo parte del fenomeno e non ottenere una panoramica realistica su quanto sta accadendo.




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