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Le due facce della ricerca scientifica in Italia

Aggiornamento: 29 set 2020

La crisi sanitaria che ci ha investiti nel 2020 ha messo in evidenza quanto sia importante poter fare ricerca e ottenere risultati scientifici utili e nel più breve tempo possibile. Ogni nazione nel mondo ha infatti investito denaro, tempo e risorse umane per fornire il proprio contributo nella lotta al virus SARS-CoV-2, finanziando ricerche su terapie efficaci, strumenti diagnostici affidabili e produzione di nuovi vaccini.


L’Italia ha accolto con successo la sfida: basti pensare ad esempio al coinvolgimento dell’IRBM di Pomezia nei test del vaccino sviluppato dall’Università di Oxford e prodotto da AstraZeneca, oppure al vaccino “tutto italiano” creato dall’azienda biotecnologica ReiThera. Senza dimenticare inoltre il gruppo di ricerca dell’Istituto Spallanzani che, alcune settimane prima dello scoppio dei focolai di fine febbraio in Lombardia, era riuscito con successo ad isolare il virus da un paziente cinese in vacanza a Roma.


C’è voluta quindi una pandemia per rendersi conto che i ricercatori italiani sono bravi. Almeno, lo sono più di quanto ci si aspetterebbe dando un’occhiata ai loro stipendi. Negli scorsi dieci anni infatti, le retribuzioni per i ricercatori e i professori delle università italiane si sono drasticamente ridotte nel tempo, soprattutto a causa dei tagli che hanno caratterizzato il periodo successivo alla crisi finanziaria del 2008. Secondo uno studio dell’Università di Bergamo, tale perdita corrisponderebbe ad un valore che si aggira intorno ai 100.000-150.000 euro pro capite.

Inoltre, in ambito OCSE, l’Italia è al 27° posto per investimenti in ricerca e sviluppo, con l’1.4% del PIL (in testa la Corea del Sud con oltre il triplo, 4.6%). Insomma, si guadagna sempre di meno e si investe altrettanto poco.


Per dirla in altre parole, il sistema universitario italiano non attrae più come in passato, soprattutto agli occhi dei più giovani. Tale perdita si può riassumere con le “3L”: Less staff, Later carrers, Lower salaries, ossia “meno posti, più tempo per fare carriera e salari più bassi”. Non a caso, nell'ultimo decennio il personale under-40 si è praticamente dimezzato, con una riduzione complessiva rispetto al 2009 del 43%.


E dove vanno i nostri ricercatori? All’estero, dove evidentemente il loro ruolo viene valorizzato di più. Non è un caso infatti che quest’anno, dei 53 italiani vincitori della “Starting Grant competition” indetta ogni anno dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) per assegnare contributi economici a settori di frontiera, solamente 20 svolgano il loro lavoro in istituti di ricerca italiani. Se tutti risiedessero in Italia, saremmo secondi in Europa dietro soltanto alla locomotiva della ricerca tedesca.


Si tratta di due facce della stessa medaglia: ogni anno entrano nel mondo del lavoro nuovi studiosi ben formati dalle nostre università, che però vengono richiesti da grandi accademie internazionali, o peggio, che faticano a realizzare i loro progetti nel nostro Paese e sono costretti ad emigrare.

E’ un trend che la nostra nazione non può più permettersi di assecondare. Come ha infatti di recente dichiarato il Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, l’Italia deve ripartire dalla libertà di ricerca, perché questa non ha solo un risvolto economico e scientifico, ma influenza la società in cui viviamo, anche e soprattutto in termini di democrazia e benessere delle persone.



FONTI E APPROFONDIMENTI


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