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Lo stato di diritto e la debolezza dell'Europa

Aggiornamento: 18 nov 2020


Lo stato di diritto é una delle forme in cui può organizzarsi lo Stato. Si caratterizza per la separazione dei poteri, la soggezione del potere pubblico alla legge (principio di legalità), la garanzia del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e per l’indipendenza della magistratura.


Se ne è parlato molto negli ultimi anni, in quanto lo stato di diritto è purtroppo estremamente in bilico, e può essere messo a rischio anche in Paesi democratici. Negli ultimi tempi si è visto come fosse complesso mantenerlo saldo soprattutto in due Paesi dell’Unione Europea, in cui stanno venendo meno molti diritti e libertà personali: Ungheria e Polonia, che hanno iniziato a corrodere lo stato di diritto lentamente, a partire dal primo decennio del nuovo millennio. E’ interessante capire il ruolo dell’Europa, che dovrebbe adottare controlli e porre sanzioni nel caso in cui avvengano delle violazioni, ma che allo stesso tempo si trova in grosse difficoltà a intervenire.


«Verrà il giorno in cui avremo una Budapest a Varsavia» così Jaroslaw Kaczyński, fondatore del Pis (Diritto e Giustizia), partito ultraconservatore polacco, si avvicina a Viktor Orbàn e dà il via all’erosione dello stato di diritto.


La lenta erosione dello stato di diritto


In Ungheria - Nel 2011 viene scritta la nuova Costituzione ungherese: Orbàn non ha interpellato quasi per niente l’opposizione, la quale lamenta un abuso di potere. La Costituzione viene negli anni sottoposta a continue modifiche, fino a quando, nel marzo del 2013, non si introducono tre revisioni fondamentali:

  1. La limitazione della libertà di espressione nel caso in cui si leda la dignità della nazione ungherese.

  2. Il divieto per la Corte costituzionale di annullare leggi che siano state approvate dai 2/3 del Parlamento.

  3. L’esclusivo privilegio dei media di Stato a trasmettere pubblicità politica prima delle elezioni.


In Polonia - Nel 2015 il Pis (Diritto e Giustizia), partito conservatore di ispirazione clericale, vince le elezioni e subito:

  1. Porta il mandato del presidente della Corte costituzionale a soli 3 anni, così da poterne pilotare la nomina.

  2. Impone alla Corte di poter giudicare la legittimità delle leggi solo se la sentenza è condivisa dai 2/3 della Corte e non più dalla semplice maggioranza.

  3. Si autoproclama libero di sciogliere i consigli di amministrazione della radio e della televisione pubblica polacca e i consigli di vigilanza.


Nel 2017 entrambi i Paesi stringono sulle misure: il governo polacco abbassa l’età pensionabile dei giudici della Corte suprema da 70 a 65 anni, costringendone ventisette a congedarsi per poi eleggere direttamente i successori.


In Ungheria si porta avanti una crociata contro le Ong tramite la “Lex Ceu” e la “Lex NGO”. La “Lex Ceu” è diretta verso George Soros, filantropo ungherese naturalizzato statunitense, e vittima di teorie cospirazioniste che lo vogliono finanziatore delle Ong al fine di portare masse di migranti in Europa per compiere una sostituzione etnica e impoverire gli europei. Il premier Orbàn e Soros hanno, però, rapporti da anni, tanto che il filantropo gli concedette una borsa di studio per studiare a Oxford, in seguito alla richiesta di Orbàn stesso. Nell’ambiente ultranazionalista ungherese “Lex Ceu” e “Lex NGO” s’instaurano come identificatrici di capri espiatori, l’una impedendo all’ateneo di Soros di restare a Budapest e l’altra rendendo molto difficile per le Ong ricevere finanziamenti utili alla loro sopravvivenza.


E negli ultimi anni la situazione si è aggravata: in Polonia nel 2019 sono state approvate le “Lgbt free zones”, regioni e cittadine del Paese nelle quali essere parte della comunità Lgbt+ è reato e non si può professare quella che il Pis chiama “ideologia Lgbt”. È poi di pochi giorni fa la notizia dell’ennesima legge che restringe la libertà di aborto, limitandola ai soli casi in cui la donna sia a grave rischio di morte o il feto sia frutto di stupro o incesto.


Mentre nella vicina Ungheria, lo scorso 30 marzo Viktor Orbàn si è approfittato della situazione pandemica per prendere i pieni poteri proclamando lo stato di emergenza nel Paese a tempo indeterminato: il governo era legittimato a sospendere indisturbato qualunque legge e a condannare fino a cinque anni di prigionia chiunque fosse stato accusato di diffondere critiche e false notizie sull’operato del governo stesso.


A seguito di 13 leggi che hanno messo a rischio lo stato di democrazia della Polonia, nel 2017 la Commissione europea ha iniziato la procedura di attivazione dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea che può attuare anche forti procedure sanzionatorie per lo Stato incriminato sulla base dell’articolo 2: «L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Ma a decidere è il Consiglio europeo, in cui risiedono i ministri degli Stati membri, di cui molti sono vicini alla Polonia. Nel gruppo ci sono anche alcuni ministri italiani, ma sicuramente i maggiori partner ideologici sono i Paesi del gruppo di Visegrad, che riunisce alcuni Paesi dell’ex Urss: Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca e, per l’appunto, Polonia.


La procedura si è svolta fino a che, questo gennaio, il Parlamento europeo ha accolto la denuncia da parte della Commissione europea ai valori e alla trasparenza per la mala applicazione dell’articolo 7; infatti le deposizioni di alcuni testimoni registrate dallo stesso Consiglio europeo (l’organo che riunisce i ministri degli Stati membri) non sarebbero state organizzate in modo regolare, e soprattutto aperto. L’esito della denuncia da parte della Commissione trasparenza non è ancora stato raggiunto, e tutt’oggi non si è proceduto ad ascoltare i membri del governo polacco con modalità trasparenti. Il meccanismo sanzionatorio è, perciò, ancora fermo.


Lo stato di diritto risponde a un potere liberale, che, tramite controlli, non permette ai governi di istituire leggi arbitrarie che mettano a rischio la dignità umana.


Il principio è chiaro e l’attuazione dovrebbe essere ferrea, così come le sanzioni in caso di violazione, eppure è evidente come, in quest’ultimo passaggio, ci siano delle difficoltà di metodo. Sembra che stia venendo meno la protezione dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione europea, tanto che la stessa UE si è ripiegata su sé stessa.


Alla base delle leggi liberticide dei due Paesi non c’è la semplice volontà di potere, ma un disegno che prosegue da anni. Sia la Polonia sia l’Ungheria in seguito alla caduta dell’Unione sovietica hanno conosciuto anni di progressismo e crescita economica.

Viktor Orbàn si professava, ed era, un dissidente attento alle leggi civili che si opponeva ai nazionalismi e, da ateo quale era, guardava con astio l’intervento della Chiesa nelle questioni dello Stato; ha portato avanti per anni idee di occidentalizzazione fino a quando, nel 2004, non ha fatto entrare nell’Unione europea gli Stati del gruppo di Visegrad e altri Paesi limitrofi all’Ungheria.


Da quel momento, i Paesi dell’est Europa stanno compiendo una serie di passi indietro, tutti insieme e con la stessa impronta retrograda.

Di fronte ad essi, l’Europa è ferma, bloccata in quello stallo burocratico che non ha permesso l’applicazione dell’articolo 7, ma non solo: l’Ungheria, infatti, da tempo minaccia di uscire dall’Unione. Questa scelta, difficile e invalidante per l’Ungheria, comporterebbe però per l’Europa un colpo che la farebbe traballare, senza contare che l’uscita di Viktor Orbàn trascinerebbe con sé i Paesi che sono entrati con e grazie a lui.


I partiti autoritari del blocco di Visegrad stanno da tempo perseguendo una via ben delineata senza incepparsi in troppe complicazioni e l’Europa, quella liberale, dovrebbe abbandonare l’eccessiva diplomazia in favore di politiche che ostacolino le mire oppressive di chi vuole il potere e lo vuole da solo, e che schiaccia milioni di persone in una morsa malata e antidemocratica.


Un segnale dell’adozione del braccio di ferro da parte dell’Unione europea sembra essere arrivato il 5 novembre: è stato, infatti, raggiunto un accordo per negare i fondi del Recovery Fund - fondo per la ripresa economica dovuta alla crisi causata dalla pandemia - agli Stati membri che non rispettano lo stato di diritto, tagliando fuori, in questo modo, Ungheria e Polonia. La risposta dei due Paesi coinvolti è arrivata il 16 novembre, quando è stato posto il veto al nuovo bilancio europeo.


È quindi il momento di decidere se si vuole legare i destini dell’Europa a Paesi che possono e vogliono mettere il veto a una manovra che protegge i diritti dei cittadini davanti a possibili autoritarismi: l’accordo raggiunto il 5 novembre tra Consiglio europeo (dove siedono i ministri degli Stati) e Parlamento (organo che esercita la funzione legislativa dell’Europa insieme al Consiglio) prevede una votazione a maggioranza qualificata (ovvero il 50% più uno), e non all’unanimità. Inoltre, con la formula dell’accordo intergovernativo, la quale permetterebbe di aggirare il vaglio del Parlamento, gli Stati liberali potrebbero facilmente oltrepassare il veto di Ungheria e Polonia, dare un segnale deciso per la protezione dello stato di diritto e consentire agli altri Stati membri di accedere ai fondi del Recovery Fund.


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